COSA TI MANCA PER ESSERE FELICE? PRESENTATO IL LIBRO DI SIMONA ATZORI ALLA MONDADORI DI PIAZZA DUOMO A MILANO


di Sergio Portas

Due giornalisti di chiara fama a fare da ali per la presentazione del libro di Simona Atzori alla “Mondadori” di piazza del Duomo a Milano, uno è Claudio Arrigoni che oltre che scrivere si vede spesso anche in TV, dove si occupa di sport e l’altro è caporedattore al “Corriere della Sera”, Alessandro Cannavò, figlio di Candido, davvero mitico direttore per svariati decenni della “Gazzetta dello Sport” e una delle colonne portanti del giornalismo italiano degli ultimi anni. Lei, Simona, pur con quel cognome che più sardo non si può è nata a Milano, babbo di Serramanna e mamma di Suelli.  Cosa ti manca per essere felice? Titola il libro dell’editore che la ospita, cosa ti manca se la foto sulla copertina ti ritrae coi tuoi lunghi, folti capelli, appena mossi dalle leggiadre  movenze di una danza classica che nello stesso tempo ti modella al corpo una veste di seta che pare tessuta dalle fate del bosco? Ecco a scrutarla bene la foto, ma davvero non si nota da subito, ti mancano le braccia, non è che siano conserte dietro le spalle: non ci sono proprio. Da sempre. Citando proprio Candido Cannavò nel suo libro che pure aveva Simona sulla prima di copertina “E li chiamano disabili” ( un best seller da centinaia di migliaia di copie): “Le sue braccia sono rimaste in Cielo. Ma nessuno ha fatto tragedie”. “Stasera, per essere felice non mi manca proprio nulla, provo un’emozione nuova nel presentare questo libro, in cui è descritta parte della mia vita, che tutto tutto non ho potuto mettere”. E mentre parla un video in sottofondo la mostra mentre dipinge coi piedi, quei piedi prensili che fanno proprio di tutto, scostano la cascata dei capelli, aggiustano il bordo del golf, si portano l’asta del microfono all’altezza più consona. Sono  “le vere mani” di Simona, tanto che quando le è capitato di sognare di averle anche lei, come tutti, subito ha scoperto il disagio che una simile situazione le avrebbe causato: quella di avere quattro mani. Intollerabile! E anche le protesi, che pure ha provato a portare per anni, non le si confacevano. Per meglio imparare ad usarle una delle sue maestre le faceva scegliere bottoni da una scatola che ne conteneva infiniti,  doveva sceglierli per foggia e colori, per grandezza, insomma un esercizio che , a suo dire, le ha scatenato la koumpounophobia, una paura che ti prende alla sola vista del singolo bottone che solo poche migliaia di persone hanno nel mondo, ma che esiste davvero. Anche se Gioia, la sorella maggiore, asserisce che questa strana paura lei, Simona, se la porta dietro dalla nascita. E i suoi abiti non conoscono bottoni. Nulla a che fare con la presunta difficoltà nell’infilarli nell’asola corrispondente, una sciocchezza di fronte al problema costituito dal lavarsi i capelli: risolto, oppure a quello di farsi le trecce: in attesa di trovare il modo. Anche se quello che conta è, come sempre, di averci provato. Protagonisti con lei in questo libro i famigliari tutti, mamma e babbo in particolare. “Pensavo, da piccola, che la mamma fosse magica” le scappa da dire. E dai giornalisti viene una reiterazione di quel luogo comune, che pure qualche fondamento deve averlo, del carattere particolare delle mamme sarde, della loro tenacia, della innata capacità di tenere insieme unita la famiglia anche quando le difficoltà paiono predominanti. Rispondere col sorriso alle sfide del destino e alle incomprensioni della gente. Era ancora una bimba Simona quando col tutù verde partecipò al saggio di fine corso di ballo con le sue compagne dell’asilo. Che gran festa per le bimbe ma, giorni dopo, nella scuola erano appese le foto di tutte le partecipanti, tranne quella di Simona. Non riesco davvero ad immaginare la faccia del direttore che consegnandole alla signora Tonina le esternava contemporaneamente la sua “costernazione” nel non poterle appendere. “Non si preoccupi, pare gli abbia risposto, nella nostra casa avranno un posto privilegiato”. Non si è arrabbiata , ha sorriso di quello che si pensava essere un educatore ed ha atteso, atteso che sua figlia, da grande, calcasse il palcoscenico della Scala di Milano. Non che tutto sia potuto avvenire per miracolo del cielo, anzi, nell’età dello sviluppo la schiena di Simona si era messa proprio a fare le bizze e anche alcuni “luminari della medicina” avevano espresso il parere che mai avrebbe potuto ballare. Ma dopo anni di busto rigido e una volontà temprata dal desiderio più schietto il sogno è fatto realtà, e di quella realtà scorrono le scene sul video proiettato alle spalle dei protagonisti questo incontro. Alessandro Cannavò intanto sceglie di leggere alcuni brani del libro: di quella volta che su un palco galleggiante lei era con un gruppo di amici e si trattava di trasferirsi su una barca in cui un marinaio tutti aiutava a salire, porgendo loro la mano, ovviamente. “Allora me la dai questa mano!” prese a gridare a una stupita Simona, che pure indossava una  maglietta sbracciata, e alla seconda impaziente richiesta dovette proprio dirgli che non ce l’aveva, la mano. O quell’altra volta che un controllore del treno se ne era uscito con l’espressione “Giù i piedi dal tavolo signorina!”, salvo scusarsi una, due , tre,  dieci volte per la sua imbecillità, quando si era infine accorto che non di piedi si trattava ma di mani del tutto particolari. Manca ancora che un vigile urbano la fermi alla guida dell’auto e le chieda la patente, ma è solo un problema di tempo. E questo lo dice Simona ridendo, che una delle sue massime è la capacità di ridere di sé, come tutti dovrebbero saper fare. Il libro è pieno di episodi  divertenti, di questa bimba che giocando da sola sull’altalena suscita la paura della gente che la vede sicuramente ruzzolare, che nuota  (come un pesce) sia a dorso che a stile (suo) libero, con parte della spiaggia che si rammarica di come i genitori di una simile creatura possano fidarsi a lasciarla in acqua da sola. E’ un libro zeppo di emozioni, di incontri, i ballerini della Scala, il Papa polacco a cui Simona regala un dipinto in cui l’aveva ritratto. Indimenticabile quella gita a Roma, galeotta dell’incontro della sorella Gaia con l’attuale marito, un ragazzo canadese che tutti li avrebbe portati al di là dell’oceano, dove Simona avrebbe coronato un altro dei suoi sogni: studiare arte, “Visual Art”  all’università, che per l’accademia di Brera c’erano state un muro insuperabile di difficoltà. E poi l’incontro con Andrea, il suo amore: leggetelo nel libro. L’incontro coi piccoli kenioti portatori di handicap o i sieropositivi che la fondazione “Fontana” segue nel paese africano. “ A gennaio riparto, per rivivere una delle esperienze più belle della mia vita, ho danzato per i bimbi e per i carcerati e lì veramente quando ridi o quando piangi lo fai con intensità sconosciuta nel nostro patinato mondo”. Anche qui tutta la sala scoppia in una risata, che sul video passa la scena di Simona mentre stringe la mano ai piccoli kenioti, porgendo il suo piede destro naturalmente, e altrettanto naturalmente tutti glielo vogliono stringere, sgranando enormi occhi di stupore per tanta maestria. Nel rito delle domande dal pubblico non posso non chiederle della Sardegna, della terra dei padri, che del resto conosce benissimo e di cui, dice, parla la lingua. “ Non mi hanno ancora invitata a ballare in Sardegna, in Sicilia invece sono andata più volte. E mentre prende a firmare copie del suo libro,  me ne vado a parlare con babbo Nello, che si è seduto nell’ultima fila a guardarsi questa figliola che, chi l’avrebbe mai detto, è diventata così importante. E, in sardo, scambiamo quattro chiacchiere di quando ha dovuto lasciare la Sardegna, anche se un lavoro pure l’aveva, di quanto siano dolci le fave e i piselli del Campidano nostro. E Gaia che si sposa in Canada e lo fa nonno di tre bimbi, di quando portava Simona sulla lambretta, messa sulla sella , davanti, e lei lo pregava di farla guidare. Gli toccava pure di accontentarla, quella diavoletta. E meno male che un vigile mai se ne è potuto accorgere. Gli è, come dice sem
pre Simona, che spesso i limiti non sono reali, i limiti sono solo negli occhi di chi ci guarda.

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