"LA MEMORIA CULTURALE DELLA SARDEGNA": INTERVISTA A GIULIO ANGIONI, SCRITTORE E SAGGISTA, INSEGNANTE DI ANTROPOLOGIA

Giulio Angioni

Giulio Angioni


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Professor Angioni, cosa s’intende per memoria culturale? Possiamo definirla come una produzione sociale umana indispensabile, presente sempre e dappertutto. Ogni gruppo sociale la produce, usando la memoria del passato per garantire la propria identità nel presente: un bisogno di riconoscimento di chi si è, da dove si viene, dove si è, e magari dove si andrà. È il senso che, anche noi sardi, diamo al nostro modo di essere al mondo.

Si ha spesso paura di perdere la memoria culturale. La memoria è in perenne ricostruzione: i nostri nonni si identificavano come sardi in modo diverso da noi. In quest’ottica, è fisiologico che nel tempo la memoria culturale si possa perdere. Essa dimentica e valorizza cose nuove, e in tutto ciò c’è sempre una pretesa di conservare qualcosa che è in continua trasformazione. Il mutare della memoria culturale si sente allo stesso modo del proprio mutare, invecchiare. Questo può far male ma è inevitabile. Io, da studioso e senza dare giudizi di valore, dico che il mutamento c’è e ci sarà per sempre. Tutto cambia nella vita, e non possiamo pretendere che una cosa fragile come l’identità resti immutata.

Se assumiamo che la memoria culturale è in perenne mutamento ed è così sfuggente, cosa dobbiamo fare per recuperarla? Tutto quello che si fa va bene, ma ci vuole attenzione, perché ciò che facciamo non è mai ciò che facevamo. Spesso recuperare la tradizione significa modificarla, in quanto la pretesa di conservazione inalterata è impossibile. La sagra di Sant’Efisio di 3 secoli fa era sicuramente un’altra cosa: se questa diventa uno spettacolo non la si conserva come ciò che era prima. Dico spesso che la Sardegna della mia infanzia è più vicina alla Sardegna nuragica che a quella d’oggi. Cambiamenti così rapidi stimolano l’idea della conservazione, che non è da criticare ma da rendere più consapevole.

Bisogna perciò stare attenti a come si giudica la ripresa della tradizione?

Certo, perché è inevitabile che qualcosa si perda. Tant’è vero che uno degli espedienti che si fa è quello d’inventarsi le tradizioni, conferendo antichità a cose che non l’hanno. Le Carte d’Arborea sono certamente un’invenzione, ma non è falso il bisogno da cui nascono, una nuova dimensione dell’essere sardi al momento dell’unità d’Italia. Il bisogno d’identità è incoercibile, e lavora su tutto, anche su cose non vere. Quando Cristo ha detto “chi crede in me vivrà in eterno” è stato seguito non per il contenuto materiale della sua affermazione, ma per la Fede che la gente aveva in lui nel rispondere al bisogno umano di non morire. Tutto ciò in un contesto religioso, ma che può anche essere ricondotto a un bisogno d’identità. E torniamo alla memoria culturale, che lavora così per diminuire la vertigine del non esserci più.

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2 commenti

  1. “E torniamo alla memoria culturale, che lavora così per diminuire la vertigine del non esserci più”: il concetto di presenza da De Martino ad Angioni. Bella intervista.

  2. Gent.mo Professor Angioni, proprio il mese scorso in Sardegna ho avuto l’onore e il privilegio di essere invitata dal comune di Perfugas per un incontro in memoria del mio bisnonno materno, Gavino Cossiga, di cui sono state reccentemente trovate delle poesie. E l’argomento che ho trattato durante l’incontro è stato proprio quello della memoria e mi ero preparata una breve relazione che allego qui di seguito a testimonianza dell’importanza delle proprie radici e della propria identità.
    L’importanza della memoria tra oralità, scrittura … e Internet
    Siamo quello che ricordiamo. La cosa peggiore che possa succedere ad una persona ma anche ad
    un popolo è la perdita della memoria. Il concetto di memoria è strettamente legato al concetto di
    identità.
    È vero che dal punto di vista fisiologico e neurolinguistico, la nostra mente nel ricordare non
    preleva meccanicamente il frammento originale che è stato impresso ma lo ricostruisce ogni volta.
    Questo ci rende profondamente diversi dalle macchine e dai computer. Tale caratteristica non
    significa che ci inventiamo i ricordi ma piuttosto che i ricordi sono frutto di un’elaborazione, di uno
    sforzo.
    Noi oggi siamo qui per ricordare una persona scomparsa da tempo, Gavino Cossiga, morto nel
    1957, e questa giornata è veramente il frutto di uno sforzo comune: da parte di chi ha voluto e
    curato questa manifestazione, da parte mia, che non l’ho conosciuto di persona, da parte del suo
    paese, dove è vissuto per diversi anni, dove ha lavorato, si è sposato, ha avuto i suoi figli, dove
    ha scritto. Dove ha provato anche l’amarezza per la partenza unita a chissà quali speranze per il
    suo futuro e quello dei suoi cari. E voglio ringraziare veramente di cuore tutti coloro che hanno
    contribuito con impegno e cura a rendere possibile questa iniziativa: uno di quei casi in cui la
    realtà supera l’immaginazione.
    Il mio ricordo si è formato nel tempo, sin da bambina, attraverso i racconti del mio nonno materno
    Mario e di mia madre, Chiara, così chiamata proprio dal nome della moglie di Gavino.
    Sono sempre rimasta colpita da quello che mi veniva raccontato, di una vita retta, di una cultura
    non comune per l’epoca, del perseguimento di ideali di libertà, di sano patriottismo, di solidarietà
    civile e di impegno politico. Valori senza dubbio presenti anche in tantissime persone ma vissuti
    con particolare consapevolezza e forza d’animo. Ideali perseguiti anche in tempi difficili quali quelli
    del fascismo. Il mio bisnonno pagò il prezzo di questa libertà e della fedeltà ai suoi ideali. A causa
    della guerra e della persecuzione contro il socialismo, le sue condizioni economiche peggiorarono
    rapidamente, visto che non volle mai la famosa tessera. Passò da una vita agiata ad una vita
    modesta ma sempre più che dignitosa al punto da ricevere il rispetto e l’ammirazione anche di
    quelli che potevano considerarsi avversari.
    Attraverso i racconti, ero affascinata soprattutto dalla sua passione per la scrittura e ogni tanto
    mio nonno mi narrava dell’incontro con Pascarella e dell’affettuosa amicizia che ne era scaturita.
    Avrei voluto sin da allora poter leggere qualcosa di suo ma per diverse vicissitudini, in famiglia non
    era rimasto alcuno scritto. Di questa mancanza ho sentito sempre il rimpianto, specie quando mia
    madre o mio nonno mi raccontavano delle belle riunioni familiari, la domenica pomeriggio, dove
    tra un dolcino ed un caffè, figli, nipoti ma anche parenti acquisiti e conoscenti si riunivano a casa
    sua e dove la giovane figlia Miriam leggeva brani di un suo romanzo o di una sua novella.
    È difficile descriverlo con le parole ma c’è sempre stato come un filo invisibile che mi ha legato
    a lui. Forse una corrispondenza di amorosi sensi di foscoliana memoria ma anche qualcosa di
    misterioso e reale al tempo stesso.
    Ho sempre nutrito la speranza che qualcosa fosse rimasto dei suoi scritti, magari proprio qui in
    Sardegna e ogni tanto provavo a cercare su Internet ma niente: trovavo solo qualcosa del suo
    omonimo, su poeta christianu e, ovviamente, notizie riguardanti il Presidente Cossiga. Ma non mi
    sono mai arresa, ho sempre continuato a cercare.
    Finché un giorno, due anni fa attraverso il motore di ricerca Google, venne fuori l’opera “La
    Sardegna di Pascarella” con i sonetti di Villa Glori e la traduzione in sardo-anglonese fatta dal mio
    bisnonno. Mi misi subito in contatto con il Prof. Ruju, curatore dell’opera e me la feci mandare.
    Grazie al professore, sono riuscita a leggere una raccolta di versi sempre in sardo, Boghes de
    s’anima. Ultimamente, ho trovato anche una novella scritta in italiano, risultata seconda ad un
    concorso letterario e che tratta dell’ospitalità sarda.
    Le tre opere sono diverse tra di loro e rivelano una personalità eclettica, riflessiva, a tratti
    pessimista e malinconica. Non va dimenticata la poesia del primo maggio, Primu de Maju, dove
    l’ardore degli ideali viene espresso in maniera vibrante contro le ingiustizie subite dalla classe
    operaia e che fu pubblicata su un giornale socialista dell’epoca.
    Io sono veramente orgogliosa e commossa per quest’iniziativa voluta dal prof. Maxia, dal prof.
    Ruju e naturalmente dal comune di Perfugas e per aver avuto il privilegio di onorare la memoria di
    quest’uomo valente, nonché mio bisnonno.
    Sono e sarò sempre orgogliosa per aver attribuito significato e conservato memoria anche delle
    mie origini sarde. Forse è proprio quel 25% di sangue sardo che scorre nelle mie vene a fare
    talvolta la differenza in termini di carattere e forza di volontà.
    È qualcosa di forte che ho sempre avvertito. Fin dalla prima volta che ho messo piede in questa
    splendida terra mi sono sentita a casa mia, anzi in domo mea. E come l’odore della madre è la
    prima cosa che ricorda ogni figlio, così il richiamo irresistibile dei profumi di questa splendida terra
    risveglia in me ogni volta pensieri e ricordi atavici che vanno ben oltre i confini del tempo.

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