AJO' A S'ISTRUMPA: AMENITA' ESTIVE IN BARBAGIA


di Tonino Bussu

Una bella giornata di giugno, il giorno di San Giovanni, nel paese c’era qualche scampolo di festa molto sottotono, causa la crisi dei pastori per il prezzo del latte e per l’economia in genere, siamo saliti a San Basilio in un campo di lecci fitto fitto in mezzo ai massi affioranti intorno al massiccio e imponente cono granitico della montagna sacra per gli ollolaesi. C’era una televisione francese, parigina, che voleva riprendere scene di istrumpa, l’antica lotta sarda per eccellenza, vi erano gli organizzatori, guidati da Piero Frau, presidente della Federazione di s’Istrumpa, c’erano i lottatori, tutti maschi, come la tradizione impone, ma di età varia.  Infatti si sono esibiti bambini in costume sardo piccolissimi, ragazzi e giovani che hanno dato dimostrazioni di abilità, forza, all’aria aperta, su un tappeto spesso di fogliame di leccio accumulatosi negli anni e che sostituiva in modo eccellente qualunque moderno tappeto sintetico. Mentre giovani e giovanissimi, in rigoroso velluto e camicia bianca, si esibivano, vi erano tra gli spettatori  anche attempati istrumpadores, così si chiamano i lottatori di s’istrumpa. E questi hanno ricordato i loro tempi quando s’istrumpa era praticata quasi quotidianamente , negli ovili, nelle aie, nelle tosature, nelle feste campestri e le sfide erano lunghe e interminabili spesso accompagnate dalla morra sarda, come è successo anche in questa occasione poco prima di pranzo e dopo. Oggi si lotta in questo modo, diceva un vecchio lottatore, ci si avvinghia e si cerca di piegarsi per non essere battuti. Ai miei tempi ci si avvinghiava in modo più stretto e ed era un corpo a corpo più ravvicinato. Vedi, mi diceva, qualcuno pratica lo sgambetto, ma non sempre vince. Io, quando mi capitava un avversario che tentava di mettermi lo sgambetto, approfittavo dell’attimo fuggente in cui sollevava la gamba, gli facevo perdere l’equilibrio e lo buttavo giù. Era infatti un momento importantissimo per mostrare l’abilità, non bastava la forza, non bastava l’altezza, era sa trassa, un concentrato di abilità e destrezza che faceva la differenza e che permetteva e favoriva la vittoria. I commenti, sempre in lingua sarda, era molto interessanti, potevano essere utili consigli per i gherradores, sembrava svolgere il ruolo dell’allenatore per una squadra di calcio, e sarebbe stato opportuno farli anche con un microfono perché sentissero tutti e ne facessero tesoro soprattutto sos gherradores. Mi sono reso conto, ancora una volta, dell’importanza che s’istrumpa venga raccontata, seguita, incoraggiata, sostenuta in lingua sarda, che è la lingua con cui questa lotta è stata sempre trattata nei tempi antichi, quand’era in voga e quando era veramente popolare e praticata quasi da tutti, mentre raggiungeva i momenti più significativi durante gli incontri per le visite di leva per il servizio militare. Per i gherradores allora era come partecipare a un’antica saga, ad imprese eroiche e le loro gesta erano cantate e tramandate  nella memoria popolare e citate come esempi da imitare..  Anche perché in quell’occasione i gherradores erano simboli del paese di provenienza e la loro vittoria era la vittoria della loro comunità per cui l’orgoglio maggiore, atterrando  l’avversario, era la consapevolezza di battere, vincere  non una persona sola, ma un intero paese. E i nomi dei gherradores vincitori correvano nella bocca di tutti con tutte le loro gesta, le loro mosse, la loro abilità nello stendere l’avversario: tutti gesti e movimenti che servivano di lezione per i prossimi gherradores, era veri e propri momenti di formazione che rimanevano impressi negli occhi e nella mente dei giovani che li avrebbero ricordati per tutta la vita e che avrebbero fatto parte della storia sociale e civile  scritta nei libri della tradizione orale dell’immaginario collettivo di ogni comunità. Questi ragazzi gherran, lottano bene, ma sono troppo influenzati dallo judo o da altri sport moderni- continuava s’istrumpadore attempato trasformatosi in critico sportivo. E ricordava abilissimi lottatori che sfidavano, durante il servizio militare, graduati e superiori i quali, praticando diverse arti marziali, pensavano di essere ben piazzati, forti, sicuri e imbattibili, ma non riuscivano a vincere questi sardi, a volte anche minuti, ma tutto muscoli, forgiati nel duro e diuturno lavoro nella conduzione del gregge, nel governo dei cavalli e dell’ovile. Un giovane di 22 anni circa aveva sfidato, durante il servizio militare, un suo superiore pur allenato e lo aveva vinto. Ma tu hai fatto sport?-chiese il militare superiore al giovane. No, mai fatto sport! E gli raccontò la sua vita da pastore e quello capì che la formazione nell’ovile creava dei lottatori  che già dalla stretta di mano manifestavano una forza inconsueta e superiore. Tu, dopo il militare, dovresti abbandonare le pecore e avrai sicuramente una brillante carriera da sportivo- sentenziò il superiore. Ma il giovane aveva solo voglia di rientrare perché il padre e il gregge lo aspettavano. E certe volte non contava l’età o il peso, ma l’abilità. E, sempre il vecchio gherradore, mi ha raccontato di un giovane di 16 anni che un giorno nei pascoli di Nuoro ha sfidato un orunese di vent’anni e l’ha vinto. Quest’ultimo non ha sopportato la vittoria di quel ragazzo ed è scappato dall’ovile rescindendo il contratto di servizio con il pastore. Altri tempi, tempi anche di intolleranza perché anche allora vi erano quelli che non sapevano perdere e non sopportavano l’affronto soprattutto dai più giovani di loro. Durante il pranzo,  a base di squisite pietanze sarde, preparate da ottimi cuochi, a base di vrente o zurrette, gnocchetti locali e pecora in cappotto, pietanze aiutate nella digestione da un corposo quanto gustoso cannonau rosso cupo e da una aromatica acquavite locale,  si discuteva della crisi, del mangiare, dell’abbondanza dei pasti che oramai facevano più male che bene, est faghende male s’abrentu, e si confrontava la crisi di oggi con quella di una volta, quando i pasti erano d’obbligo molto parchi, anche durante le feste. Mi ricordo che andammo con mia madre a San Cosimo, a cavallo, e ci portammo gli gnocchetti  pronti- raccontava un pastore attempato- A pranzo li abbiamo tirati fuori e li abbiamo divisi in porzioni con un coltello perché si erano quasi solidificati. Non tutti avevano nemmeno la pastiera o il contenitore per il cibo- continuò-. Una signora lì, dal venditore ambulante, aveva acquistato un orinale e, dovendo servire un recipiente per un pasto, lo tirò fuori e, dopo aver garantito che ancora non era stato usato per la bisogna, fu accolto con favore anche se l’uso era improprio. E nessuno fece lo schizzinoso-concluse. Eh, gana bona cheret! – at commentato un altro.  E allora si ricordarono le ristrettezze di un tempo, in confronto la crisi di oggi è uno scherzo, e i ricordi ci riportarono nel 1945, l’anno dell’invasione biblica delle cavallette. In quell’anno, raccontava un altro, ero un bambino di cinque, andavo in campagna con mia mamma e una mia zia, io cavalcavo l’asinello e lungo la strada c’erano cataste di cavallette così alte che alla fine l’asino è affondato tra queste che gli coprivano completamente le zampe; e infatti a un certo punto non riusciva a muoversi, era completamente paralizzato! Io cominciai a gridare, mia madre prese le briglie dell’asino e lo tirava, mentre mia zia lo sospingeva da dietro e solo dopo tanta fatica riuscimmo a liberarlo da quella massa vivente di insetti che era peggiore delle sabbie mobili. Intanto la morra improvvisata continuava, e nel frattempo anche il regista, incoraggiato dagli istrumpadores, abbandonò il suo consueto ruolo e inscenò una dimostrazione di istrumpa. Ci provò varie volte perché ormai ci aveva preso gusto. Chissà che tornando a Parigi non abbia l’occasione di incontrare gli amici bretoni, che di istrumpa se ne intendono, e magari perfeziona quella lotta vista e provata in Barbagia.

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