
reperti fenicio-punici recuperati in Sardegna
ricerca redazionale
È un lavoro sporco l’archeologia. I dati non sono chiari, ci sono dubbi, incertezze, ambiguità. Come succede nella vita». Ineccepibile la sintesi di Peter van Dommelen, 44 anni, professore di Archeologia mediterranea all’Università di Glasgow. A Terralba inserisce gli ultimi dati sul computer, a chiusura di una campagna di scavi di tre settimane in località Pauli Stincus. Protagonisti i primi insediamenti rurali punici dell’Isola, tra il IV e il II secolo avanti Cristo. L’archeologo guida un’équipe internazionale messa insieme dalla sua università e da quella di Valencia. Nel progetto è codirettore il collega Carlos Gómez Bellard, anche lui sul posto. E c’è un italiano, Andrea Roppa, ora ricercatore in Scozia. Tra l’altro la campagna ha ricevuto i finanziamenti della National Geographic Society, della British Academy e del ministero alla cultura spagnolo, con la collaborazione della Sovrintendenza ai Beni archeologici di Cagliari e Oristano. Ne vale di sicuro la pena. Sino agli scavi terralbesi (e i precedenti del 2007 nella vicina Truncu e molas, sempre coordinati da van Dommelen) l’unico insediamento rurale punico studiato in Sardegna era S’Imbalconadu, fuori Olbia. A Pauli Stincus sono stati rinvenuti i perimetri di due fattorie e cinquemila frammenti di ceramica. Ancora resti animali e molluschi (parecchie le arselle) che saranno esaminati in Spagna dai bioarcheologi. Segni della presenza di una comunità agricola che mangiava il pesce locale. Ora gli scavi sono stati ricoperti di terra e si proseguiranno il prossimo anno. Intanto le ricerche rafforzano le tesi di van Dommelen e di Gómez Bellard. Loro preferiscono l’espressione “mondo punico” piuttosto che “impero cartaginese”, che sa di «connotazione amministrativa forte di cui non si ritrova motivo nell’evidenza archeologica». I dubbi, si diceva. «I romani hanno vinto le guerre puniche ma non abbiamo scritti dei cartaginesi: è la storia scritta dai vincitori». Come lo storico, l’archeologo indaga su un passato buio. In questo i cartaginesi, i cattivi, non hanno voce. «Bad guys secondo gli scrittori romani», riassume con una battuta van Dommelen. La sua indagine ha una visione più ampia: osserva il rapporto delle prime fattorie puniche con il territorio. Le comunità avevano un orto e il bestiame di pecore e maiali. Non producevano solo grano ma anche vino, altra matrice dei luoghi. Felice caso organizzativo che la base operativa del team sia infatti l’ex cantina sociale. Gli scavi odierni sono frutto di precedenti ricognizioni con la strumentazione geofisica. «Siamo qui per la ricchezza di insediamenti del mondo punico e perché l’ambiente umido è ideale per la conservazione di semi e ossa». L’impegno di van Dommelen non parte oggi, ovvio. I contatti con Terralba sono iniziati nel 1991. Era stato l’archeologo Raimondo Zucca a suggerire quella zona. Tutti studiavano i grandi centri dove c’erano riscontri di colonie nel Sinis, nel cagliaritano e a Sant’Antioco. E nessuno l’entroterra, tanto che esistevano poche pubblicazioni. Da allora una serie di ricognizioni e i contatti diventati saldi con Gino Artudi e Sandro Perra (la moglie Giusi si rivelerà preziosa organizzatrice per gli alloggi dei ricercatori stranieri). Terralbesi appassionati di archeologia che si faranno interpreti con i proprietari dei terreni su cui scavare. Si parla in sardo, si contratta. Conoscenza che diventa poi amicizia con i sardi. A Terralba capita che chi ha il podere confinante agli scavi porti le albicocche appena colte agli archeologi sudati. E quando arrivano i curiosi il gruppo si presta a soddisfare tutte le domande, a mostrare il cantiere. S’istrangius? Gli archeologi hanno aperto la campagna a tre giovani sardi: uno alle elementari, uno alle superiori e uno universitario. Archeologi di domani.