"CASTIGOS DE DIOS" DI FRANCESCO MANCONI, RACCONTA LA GRANDE PESTE BAROCCA NELLA SARDEGNA DI FILIPPO IV

due "totem" di TOTTUS IN PARI: da sinistra, Sergio Portas (autore dell'articolo) e Paolo Pulina

due "totem" di TOTTUS IN PARI: da sinistra, Sergio Portas (autore dell'articolo) e Paolo Pulina


 
di Sergio Portas

A leggere delle percentuali di aventi diritto che si sono recati alle urne per il secondo turno di elezioni amministrative nella provincia di Cagliari si viene assaliti da un senso di sconforto. Hai voglia di dirti che trattasi di segnale politico, che la cittadinanza ha voluto ulteriormente significare la sua disaffezione per una classe politica screditata, percepita come “altra” da una società civile che non si sente più rappresentata da questo tipo di istituzioni. Che non trova più nel rito dell’elezione un momento di unità popolare in cui esercita la scelta dei governanti suoi, a cui affida speranze indistinte ma che comunque concernono problemi di natura esistenziale: il lavoro innanzitutto, ma anche l’abitare, l’uso del territorio, l’energia più o meno dolce. Anche se il fenomeno riguarda il Bel Paese tutto, il grido dei sardi alla loro classe dirigente sembra levarsi più forte: “Non vi crediamo più! Ci avete tradito”. E’ un sentimento antico questo, che si situa nella memoria storica del popolo sardo, come facente parte del senso comune di intendere la vita. Montesquieu, nel suo  celebre “Lo spirito delle leggi” (qui anche la teoria della separazione dei poteri tanto invisa al Berlusca che ci governa) scrive che le istituzioni che i vari popoli si danno nella loro storia non sono qualcosa di arbitrario o casuale ma sono connaturate alla natura dei popoli stessi, ai loro costumi, alla religione, e condizionate sicuramente anche dal clima. E allora, prendendo a guida un altro francese storico di mestiere, Marc Bloch (Apologia della storia) proviamo a sviluppare questo filo intricato che lega il tempo e gli uomini, per tentare una lettura meno episodica dei fatti politici odierni. Per questo ci affidiamo al libro di Francesco Manconi, che insegna all’Università di Sassari storia sociale: “Castigo de Dios, la grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV” , editore Donzelli. Periodi quelli nei quali i commerci si dipanavano per lo più nella direttrice che portava in Spagna e nelle Baleari e le epidemie di peste, che si succedono in Sardegna tra Cinque e Seicento, hanno a vettore i topi (e le loro pulci)   che viaggiano sulle navi solcanti il Mediterraneo occidentale. Per lo storico la peste risulta un formidabile “rivelatore sociale e mentale”, la “crisi” fa esplodere conflitti tra poteri istituzionali, tra magistrature e popolo, come sta facendo del resto la “crisi economica” che ci viene raccontata quotidianamente dai giornali. Non dovrebbe fare distinzioni di censo la peste, tra ricchi e poveri, potenti e miserabili. Eppure se anche è vero che nessuno è immune dal contagio, al lazzaretto ci finiscono solo i poveri. I possidenti appena possono scappano in campagna, oppure si barricano nelle case cittadine. Per i primi non ci sono che frati a curare gli ultimi giorni degli sventurati che contraggono il morbo, i secondi possono usufruire dei benefici che metteva loro a disposizione la medicina del tempo. Che aveva più effetto di un placebo piuttosto che essere  veramente curativa. Paradossalmente categorie “povere” sono esenti dal morbo, le pulci infatti vengono respinte dagli odori forti che emanano da capre mucche e cavalli, quindi pastori e cavallanti si ammalano di meno. La virtù popolare capisce presto che per evitare la peste è meglio dormire vicino al gregge piuttosto che fare affidamento alle virtù guaritrici di barbieri e mediconi di scarse letture. Ma seguiamo Manconi: ”Altro è il discorso se si fa attenzione all’endemia malarica che in ogni tempo affligge l’isola. Se la peste è un “castigo divino”, un avvenimento eccezionale e transitorio, l’intemperie (ossia la malaria) è una costante della storia della Sardegna che permea la natura e il paesaggio agrario, tormenta i corpi, riduce o annulla le potenzialità produttive, modifica le abitudini e i costumi, plasma il carattere degli uomini, condiziona negativamente l’economia, porta quasi sempre alla morte i forestieri.” (pag.27). La malaria è stata per la Sardegna una “peste perpetua” che è stata debellata con tonnellate di DDT solo dopo la seconda guerra mondiale. Comunque ,nell’attesa che la pestilenza cessi, prioritario per le autorità è recludere nei lazzaretti gli indigenti, confinarli fuori le mura delle città, sfamarli, sorvegliarli costantemente. Per quanto riguarda i ricchi: “Il conte di Centelles e don Sadorro Cetrillas fuggono da Cagliari con le loro famiglie e il seguito e riparano a Guspini; ma poi, per fuggire anche i pericoli della malaria, chiedono asilo- e lo ottengono- all’amministrazione civica di Sassari.” (pag.294). Notare che la peste era allora a Uras e ad Arbus, come Guspini potesse ancora esserne immune è difficile immaginare. In questi piccoli paesi si muore comunque con diversa dignità, almeno i cadaveri degli appestati non vengono lasciati nelle strade alla mercé dei cani randagi, come capita invece a Cagliari quando non si trovano più interratori e non c’è più spazio nei cimiteri improvvisati dove i poveri corpi sono ammassati nelle fosse comuni. Erano tempi quelli in cui una “buona morte” era viatico per una seconda vita che non prevedesse permanenze prolungate in Purgatorio. Chi poteva lasciava le sue povere cose perché venissero celebrate messe di suffragio a questo proposito. ”Un esempio significativo, pur nella modestia del contesto sociale: in un paese come Sanluri, dove alto è il numero delle inumazioni compiute senza riti religiosi per la povertà dei defunti, Margarida Mereu lascia al parroco l’incarico di vendere il suo pabillon, il baldacchino del letto affinché “se le hisiesse la pompa funeraria” e si dicessero tante messe quante ne permetteva il ricavato della vendita.” (pag.329). Naturalmente i veri ricchi lasciano scritto nei loro testamenti che migliaia siano le messe da celebrasi in suffragio delle loro anime. Che paradossalmente un’altra istituzione che si arricchisce con la peste è la Chiesa cattolica, sebbene siano moltissimi i preti che rimangono ultimi a dare conforto ai malati dei lazzaretti. Scrive ancora il Manconi a pag.224: “La vita associativa sembra caratterizzarsi per un’estrema tenuità dei vincoli di solidarietà: le comunità locali si sentono abbandonate a se stesse; anzi, lo Stato appare -come effettivamente è-presente in periferia soltanto con le misure restrittive delle libertà di movimento e di commercio e con le imperiose e sgradite disposizioni dei “dittatori” sanitari.”Un antistatalismo sardo che ha dunque origini storiche e che sembra riemergere anche oggi, quando il morbo della crisi economica quasi tutti attanaglia. Quasi tutti che, al solito, ci sono categorie che riescono a trarre profitto persino dai terremoti. E ne sono piene le prime pagine dei quotidiani nostrani. Oggi in Sardegna non c’è più un viceré che deve rendere conto a Madrid ( casomai al “governatore” Cappellacci è ad Arcore che tocca telefonare) . Teoricamente i cittadini, il popolo, può scegliersi i suoi baroni, i suoi marchesi, seppure in una lista che, mercé la legge “porcata” del leghista Calderoli, è blindata dai partiti politici che la redigono. C’è la possibilità che nascano, dal basso, delle liste civiche sganciate dal sistema politico egemone. C’è internet e Beppe Grillo. Eppure i sardi, almeno a Cagliari, sembrano aver scelto il disimpegno e, disincantati dalle urne, si ritrovano ancora a festeggiare il santo che ha intercesso per loro durante la peste del 1656. Da Stampace Sant’Efisio è portato in processione alla cattedrale, nel Castello di Cagliari. I microbiologi, questi miscredenti, fanno risalire la morte delle pulci pestifere coi primi caldi eppure anche loro, il primo di maggio, si mettono il vestito buono e sciamano in massa a sbirciare le donne sarde in costumi rutilanti di filigrane e merletti. Gli occhi che brillano come ossidiana dell’Arci.

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2 commenti

  1. Sergio Portas (Milano)

    Foto a sorpresissima, e poi: totem, addirittura! Paolo, onestamente, in foto fa più figura di me.

  2. Paolo Pulina (Pavia)

    Siamo Tottus in Pari, Totem alla pari
    Cosa combini, Massimiliano? Prendi una foto di Cinisello e per vivacizzarla, bello bello,
    metti una dida con nome arcano. Totem significa, dice il dizionario: non solo nume tutelare o protettore,
    ma scout, media player, cogeneratore e anche cartellone pubblicitario.
    Ma forse è stata una l’attrazione: Totem invece che numi tutelari suona meglio per la redazione
    del Blog chiamato Tottus in Pari.
    In realtà siamo Tottus Totem alla pari: ci dispiace solo per Telò Valentina;
    il cui cognome non inizia con P di pari, come Perlato, Portas, Puddu, Pulina.

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