Il primo rapporto sul lavoro in Sardegna: l'occupazione precaria avanza inarrestabile

di Francesca Madrigali

 

Una Sardegna sospesa fra tradizione e modernità è quella indagata dal primo Rapporto sul mercato del lavoro in Sardegna, realizzato dal "Centro studi relazioni industriali" dell’università di Cagliari e curato da Maria Letizia Pruna con i contributi di Gianni Loy, Tiziana Putzolu, Fabrizio Carmignani e Piera Loi. Il volume, primo di una serie, analizza le varie sfaccettature di un tema sfruttatissimo nelle passate campagne elettorali e probabilmente anche in quelle future: il lavoro, ovvero l’occupazione, la disoccupazione, la precarietà, le relazioni con i vari attori del mercato, le possibili azioni per migliorarne il funzionamento. Lo scenario è assai complesso e fatto di luci e ombre e quali prevalgano è difficile dirlo: nell’isola il settore primario (agricoltura, allevamento e pesca) continua a reggere, ma allo stesso tempo l’occupazione si fa sempre più "terziarizzata"; il comparto industriale si rivela essere composto perlopiù dalle "tipiche" attività legate all’edilizia; la precarizzazione dell’occupazione avanza inarrestabile, erodendo settori e lavori che sembravano stabili, di pari passo però con un tasso di occupazione femminile – e in generale un atteggiamento complessivo verso il lavoro extradomestico- che è prossimo alla media nazionale e ci differenzia nettamente dal resto del Mezzogiorno. La Sardegna è una delle poche regioni a non aver avuto, finora, un riferimento scientifico – istituzionale di questo tipo, indispensabile per intervenire sul mercato del lavoro. Il Rapporto analizza dapprima il decennio 1993-2003, caratterizzato dalla caduta occupazionale dell’industria, più profonda in Sardegna rispetto al resto del Mezzogiorno, e soprattutto dalla crescita del settore terziario, un exploit che è proseguito poi negli anni successivi. Ma è soprattutto la crescita dell’occupazione femminile, che cresce nel decennio di oltre 7 punti percentuali, e si accompagna a una stagnazione quando non addirittura a una lieve diminuzione dell’occupazione maschile, a differenziare l’isola: il dato si accompagna alla variabile che appare cruciale per chi vuole impiegarsi o re-impiegarsi, e cioè il livello di istruzione. Infine, l’ascesa del lavoro temporaneo, fenomeno cominciato negli anni Novanta e divenuto, più che ricorso alla flessibilità, precarizzazione e insicurezza di lavoro e di vita. Nel quinquennio 2004-2008 il distacco della Sardegna dal resto del Mezzogiorno si è poi consolidato e il saldo finale dell’occupazione è positivo, con 17mila occupati aggiuntivi alla fine del 2008 e un miglioramento del livello occupazionale, nonostante l’impatto delle crisi economica globale. Il volume non indaga solo il mercato e le sue evoluzioni, ma anche le relazioni industriali in Sardegna e i protagonisti (sindacati, organizzazioni imprenditoriali), e le politiche comunitarie del lavoro, per le quali la Ue non opera con modalità rigide ma con il "metodo aperto di coordinamento", cioè norme non vincolate e non assistite da sanzioni, ma non per questo meno efficaci. Infine, il tema attualissimo delle "politiche del lavoro": gli strumenti di incentivazione economica, di animazione o assistenzialismo del mercato del lavoro.

Il settore primario. Gli addetti delle attività agricole, dell’allevamento e della pesca non sono diminuiti, contrariamente a quanto accaduto in altre aree: la quota dell’occupazione agricola è rimasta ferma al 6,2 per cento. Le caratteristiche salienti sono la scarsa componente femminile (il 13% contro il 32 del resto del Mezzogiorno), la prevalenza di lavoratori autonomi (il 65%), e il fatto che il lavoro temporaneo è meno diffuso che nel Sud (43% contro il 63). 

Il settore secondario. I dati del Rapporto riflettono la situazione drammatica dell’industria, che ha costantemente perso peso e addetti nel periodo 2004-2008, ma soprattutto la composizione peculiare di questo settore: in Sardegna, infatti, l’occupazione "industriale" risulta essere in gran parte attribuibile all’edilizia (per il 48%, mentre nella media nazionale è di circa il 28%). Quindi, con 17mila addetti in meno e una quota di occupazione del 21 per cento, a fronte di una media delle altre regioni del Mezzogiorno del 23,4, l’isola si conferma area "a bassa densità industriale". I dati del terzo trimestre 2009 dimostrano che la crisi in Sardegna ha colpito di nuovo, e massicciamente come negli anni Novanta, la componente maschile e l’industria, mentre il dato occupazionale femminile risulta essere uno dei più alti degli ultimi anni.
Contrariamente al resto del Mezzogiorno, le donne sarde non appaiono scoraggiate nella ricerca di un lavoro e l’esito spesso positivo di questa ricerca fa sì che la disponibilità femminile al lavoro aumenti, in una sorta di circolo virtuoso che fa raggiungere alla Sardegna i numeri della media nazionale: in Italia la componente femminile delle forze di lavoro ha superato il 40%, e in Sardegna si sfiora il 39,7 mentre il resto del Mezzogiorno si attesta sul 35% delle forze di lavoro. Questo, spiega la curatrice Maria Letizia Pruna, è dovuto soprattutto a due fattori: la riconversione del sistema economico verso il settore terziario (e contrariamente alla sensazione diffusa, non di soli call center si tratta, ma per quanto riguarda le donne anche di sanità, istruzione, cultura e affini) e la ripresa dell’occupazione nel terziario che ha "compensato" la caduta di posti di lavoro nell’industria (il saldo finale del periodo 2004-2008 indica un aumento di 34mila occupati).

 

Il settore terziario. Secondo il dato del 2008, il 73% degli occupati in Sardegna appartiene al settore terziario, cioè a quella macroarea che comprende tutte le attività che producono servizi, pubblica amministrazione e commercio. Il dato medio nazionale è del 66,5% e quello del Mezzogiorno è inferiore al 70. La distribuzione dell’occupazione del terziario sardo è più vicina alla media nazionale che al resto del Mezzogiorno: circa 100mila persone (sono aumentate dell’11% negli ultimi anni) lavorano nell’ambito dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale. Nei settori di sport, cultura, tempo libero e benessere lavorano circa 37mila persone, e anche il commercio mostra una dinamica positiva toccando i 96mila addetti. C’è stato un netto avanzamento per i servizi alle imprese (con 10mila occupati in più), una buona tenuta di credito e assicurazioni e un boom del
ramo delle comunicazioni, con oltre il 30% di occupazione aggiuntiva. Il settore dei trasporti registra un meno 15% di addetti e anche il settore alberghiero e della ristorazione è cresciuto poco: solo il 5% a fronte del 13 del Mezzogiorno e del 14 della media nazionale.


L’istruzione. E’ soprattutto l’istruzione la chiave di volta del cambiamento del mercato del lavoro in Sardegna: c’è infatti un divario crescente fra i livelli di istruzione femminile (sempre più alto) e maschile (fra i più bassi d’Italia), nel contesto generale in cui, comunque, il livello medio di istruzione della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) è inferiore alla media nazionale. Nell’isola, infatti, le persone con la sola licenza media sono il 57,6% contro il 49,1 dell’Italia e il 55 circa della popolazione del Mezzogiorno, ed è un ritardo- oltre che uno svantaggio per chi cerca lavoro- che persiste, tanto che nel 2008 oltre i due terzi degli uomini fra i 40 e i 49 anni risultano avere solo la licenza media, e così per il 55% dei 30-39enni e perfino per il 43 per cento dei 25-29enni. Parallelamente, solo il 27% delle donne fra i 25 e i 29 anni si è fermata alla licenza media, e il 20 per cento in questa classe di età ha conseguito una laurea a fronte del 12% dei maschi. Ecco uno dei motivi dell’aumento dell’occupazione femminile, a maggior ragione in una Sardegna molto "terziarizzata": giovani uomini in possesso della sola licenza media si trovano a competere con giovani donne che in buona misura sono laureate o hanno un diploma (il 60%).

 

Il lavoro temporaneo. Non sono tutte rose e fiori, però: la qualità del lavoro, spesso scarsa, è uno dei fattori di possibile rinuncia e in generale di cambiamento dei livelli di disponibilità al lavoro, soprattutto (ma non solo) per le donne, coinvolte anche in impegni personali e familiari e non sostenute da un adeguato welfare. L’ascesa del lavoro temporaneo, che non provoca solo discontinuità lavorativa ma insicurezza esistenziale, fa il resto. Nel 2008, più del 15% degli occupati dipendenti in Italia ha un contratto a termine; la quota è del 19,2% nel Mezzogiorno e supera il 20% in Sardegna, per circa 90mila unità, ovvero 90mila persone che non possono contare sulla stabilità del lavoro e sono – e si sentono- esposti al rischio di perderlo.
Infatti, come sottolineato dalla Pruna, "il vero problema del mercato del lavoro oggi non è tanto la disoccupazione quanto la precarietà, che poi spiega anche la disoccupazione, perché i precari di oggi sono i disoccupati di domani", proprio perché l’offerta di lavoro è in continuo movimento. La precarietà dell’occupazione presenta caratteristiche importanti in Sardegna: sono assai diffusi i contratti brevissimi, di due o tre mesi, e il 65% delle persone con una occupazione a termine ha più di 30 anni. Facile, quindi, cadere nella tentazione della statistica aneddotica "fai da te", ovvero, tipicamente, Io (mio figlio, i miei amici eccetera) sono laureato/a, in cerca di lavoro, e disoccupato/ precario/in cassa integrazione eccetera, e quindi tutta la Sardegna è così, mentre la realtà è molto più complessa e mobile, fatta anche, ad esempio, di quella "zona grigia" che si colloca fuori dalle classificazioni ufficiali ma è composta da persone che comunque si considerano attive, cioè facenti parte delle forze di lavoro. Sarebbe poi interessante analizzare anche altre variabili, quali la valutazione del tempo necessario per trovare una occupazione a seconda del livello di istruzione, o la corrispondenza fra titolo di studio e tipo dell’impiego, perché i decisori politici possano trarne, poi, conclusioni e decisioni supportate dall’analisi scientifica e non dall’approssimazione o, appunto, dalla facile aneddotica.

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