Miniere e minatori del Limburgo: storie di sardi

di Antonio Rubattu

 

Le miniere hanno da sempre rappresentato oltre che un’importante fonte di ricchezza, un’insaziabile voglia di conquista coloniale. Questo fin dall’antichità: interi territori, a cominciare dalla Sardegna sono stati oggetto di conquista da parte di altri popoli a causa delle miniere. Popoli, quali i fenici e i punici, arrivarono in Sardegna seguendo il percorso dell’ossidiana, del piombo e dell’argento. Le mi­niere, il lavoro di estrazione, erano alla base di fiorenti commerci. Nell’antichità, una buona parte del transito delle navi greche, fenicie, puniche e romane nelle ac­que del Mediterraneo, era legato al trasporto dei metalli, dei minerali da lavorare e dei materiali lapidei delle cave. Il controllo delle miniere, da sempre, ha perciò portato ad una serie interminabile di guerre e di sanguinose e dolorose conquiste: l’arrivo dei romani in Spagna è legato alla necessità di controllare i giacimenti mi­nerari della penisola iberica ricchi di ferro. Con il sorgere delle signorie feudali, dopo i secoli bui delle invasioni barbariche, la ricerca e l’estrazione di minerali è stata via via potenziata. Intorno all’anno mille, grazie al risvegliarsi in tutta Europa delle attività commerciali in molte città e a un nuovo sistema di scambi, le navi delle compagnie espressione delle potenti città marinare, ripresero il predominio sulle antiche rotte commerciali del Mediterra­neo e dell’Atlantico europeo. I metalli e le produzioni legate al ciclo minerario, ri­presero prepotentemente il loro posto nei circuiti mercantili. In tal modo, minerali quali il carbon fossile, tornarono ad essere estratti e commerciati in tutta Europa. E il carbon fossile piano piano si è trovato nei secoli a legarsi ad alcuni luoghi, a cominciare dal Limburgo. La storia ricorda come nel 1100, proprio in questa regione, fossero stati i monaci del monastero di Klosterra­th ad avviarne per primi un’estrazione e un commercio razionale e redditizio. L’ordinamento feudale con l’obbligo di prestazione di lavoro verso il Signore, ca­ratterizzò la coltivazione mineraria per tutto il Medioevo, insieme alla nascita del­le gilde di mestiere, che fissavano non solo le regole commerciali ma le modalità di estrazione. Tutto ciò fino al 1700. Ma, accanto a questo ordinamento, si andarono sviluppando, specialmente in Germania, nuove forme contrattuali. Il lavoro delle miniere è soprattutto un lavoro legato al numero di braccia che si hanno a disposizione: anche se lontani dai periodi bui del Medioevo, neanche le innovazioni tecniche del 1500, sono mai riusciti ad affievolire la fame di uomini delle miniere. Nel 1500, nel bacino minerario tirolese di Falkenstein, in 36 miniere si impiegavano oltre 6850 persone. Nelle miniere di carbone dell’Inghilterra del 1600, un solo padrone poteva avere necessità anche di mille persone per il lavoro di una sola miniera. Il lavoro del minatore è sempre stato un lavoro sporco e faticoso: nella miniera ti­rolese di Schawz, nel 1600, si aveva necessità di oltre 600 persone per trasportare l’acqua dalle gallerie alla superficie. Seicento persone che per tutta la giornata era­no incaricate di riempire dei grossi tini e a forza di braccia, andarli a svuotare nei canali esterni intorno allo stabilimento. Che fosse un lavoro faticoso era chiaro, come era chiaro che con le miniere la gente cercava di non averci nulla a che fare. Erano lavori dove ci si arrivava o per disperazione, per mancanza di un’altra occupazione, o per scontare una pena. Ma era un’attività necessaria che non poteva fare a meno di braccia insieme ad una forte necessità di ricambio. Per un lungo periodo, le potenti signorie medioevali e rinascimentali della Germania, dell’Inghilterra e della Scozia, per una parte della loro vita, rendevano obbligatorio al loro popolo basso, alla plebe, il lavoro di estrazione. Questo non voleva dire che il lavoro non fosse organizzato tramite corporazioni di mestiere in molti casi potenti. Le gilde dei minatori raggruppavano le società di estrazione, che avevano il compito di stipulare con i padroni delle terre, le potenti signorie locali e le case regnanti, complicatissimi contratti collettivi. Queste prime forme di contrattazione portarono a importanti innovazioni negli ordinamenti e a modelli di contratto rivoluzionari per quei tempi, di cui ancora oggi si sentono gli effetti: il cottimo, per esempio è fra questi. Non deve, perciò, sembrare tanto stra­no che a quel punto, verso i centri minerari, si muovessero intere comunità. Comunità che formavano dei veri e propri centri urbani, insieme a tutti i servizi necessari per lunghi periodi: una città mineraria, nonostante la sua vita legata alla permanenza in vita del filone, poteva rimanere attiva per decenni. Si aveva bisogno allora di creare dei simulacri di città urbanizzate e organizzate, dove fosse possibile la permanenza. Le ricerche di archeologia industriale in Europa, hanno portato alla luce molti di questi centri, altri si stanno realizzando un po’ in tutto il mondo. Ma, soprattutto, molte città minerarie sono visitabili: le più celebri, che ancora oggi eccitano la fantasia di schiere di visitatori, sono le Ghost town ameri­cane, celebrate in film e racconti, spesso dell’orrore, nate nella maggior parte vicina ad una miniera di qualche importante filone di metalli preziosi. Sono luoghi classici di emigrazione e centri cosmopoliti per antonomasia. Quello del carbone è sempre stato considerato un tipo di estrazione sporca e pericolosa: i filoni dovevano essere scavati per grandi estensioni su terreni fragili dove neanche l’armatura delle gallerie basta a renderli stabili. Le gallerie potevano crol­lare ad ogni momento, diventando prigioni mortali a causa delle continue fughe di gas. La sua estrazione non era solo un problema di braccia ma di coraggio, di polvere e strane malattie, che alla fine impedivano agli uomini che ne erano colpiti di respirare. Le braccia e il desiderio di cambiare la propria vita erano tutto quanto occorreva per sconfiggere il desiderio di fuga da quell’inferno. Certo, i minatori non sono sempre stati come vengono ricordati nel 1900, o nel 1800. In passato, nel Medioevo, era un mestiere duro, ma certamente speciale, al limite del magico: un minatore, allo stesso tempo doveva essere in grado di indivi­duare i terreni utili per gli scavi, capire dalle piante che nascevano in superficie cosa si poteva trovare in profondità, doveva saper armare le gallerie, e infine or­ganizzare le laverie e le fonderie. I minatori, partivano con lo stesso spirito dei cercatori della corsa all’oro america­na ed essere in grado sia di individuare il buon filone saggiando il terreno con scavi di prova che di avventurarsi in territori quasi sconosciuti. I loro strumenti erano qualche arnese e un animale su cui trasportare le provviste per lunghi periodi e legavano i loro sogni a quei buchi nella terra, umidi e caldi che portavano sempre più giù. Ma, nel bene e nel male, erano padroni del loro destino. Diverso il discorso nel 1900. Il lavoro nelle miniere aveva perduto buon parte della sua auto­nomia: al minatore gli si chiedeva di eseguire poche operazioni nel più breve tempo. A nessuno interessa più dare qualche nozione su cosa sono le miniere o in che ambiente si svolge il loro lavoro. Ecco il racconto di un vecchio minatore sardo: "Pensavo che sotto fosse molto più brutto: la galleria era grande e spaziosa, c’erano quattro binari e tutta illuminata. Sembrava di essere di notte in una grande città. La cosa peggiore
era il caldo. In molti punti si arrivava a 40 gradi di temperatura", ricordano diversi. "L’ascensore scendeva giù fino alla galleria. Poi, su un trenino elettrico o a nafta, si facevano fra i 10 e gli 11 chilometri. Da lì si prendeva un altro ascensore, poi si risaliva e da qui, per arrivare alla taglia. Ogni sei metri c’era una lampada. Il capo ci chiamava per numero e ci indicava la lampada dove dovevamo lavorare". Non tutto era tutto rose e fiori e la curiosità iniziale spesso si tramutava in tragedia, in incidenti. L’inesperienza poteva essere pericolosa: "A farmi male mi è capitato quasi subito, forse il primo,o forse il secondo giorno: il nastro trasportatore di ferro fu messo in moto senza accendere la lampada rossa che costituiva il preavviso, proprio mentre stavo passando". Un lavoro faticoso, che si capisce come tale dai racconti puntuali che tutti i vecchi minatori sardi fanno ancora oggi: "Per estrarre il carbone non si usava solo il martello pneumatico, ma anche una sega meccanica che poteva infilarsi fino ad un metro e mezzo nel carbone. La sega era trainata da un nastro trasportatore forma­to da due catene, il panzer. In altre taglie, dove il carbone era meno duro, si utiliz­zava lo strap, una specie di aratro con due denti che, sempre montato sul panzer continuava ad andare avanti e indietro estraendo carbone per circa 40 centimetri di profondità". I gruppi di minatori che si formavano erano una babele di lingue e di nazioni. Le miniere del Belgio, sono state per molto tempo un crocevia obbligato di tutti i popoli poveri del Vecchio Continente. Ecco la testimonianza di un sardo: "La nostra squadra era costituita da un polacco, un tedesco e tre manovali italiani. Lavoravamo sempre a 380 metri di profondità in un punto molto pericoloso, situato sotto una grande falda sotterranea. Nel la­voro di scavo della galleria dovevamo fare molta attenzione". Ricordano molti sardi del circolo: "Il primo impatto era a la va o la spacca". Si è trattato, cioè, di un incontro fortemente traumatico per quasi tutti. Non erano assolutamente consapevoli di quello che li aspettava. Venivano, bisogna sottoli­nearlo, da un altro mondo. Erano abituati all’aria aperta, al vento alla pioggia, alle stagioni. Tutte cose che nelle miniere scompare: "Si entrava al buio e si usciva al buio. Questo per sei giorni alla settimana. Non era il lavoro ad esser duro, ma l’ambiente. Bisognava adattarsi. Bisognava farci l’abitudine. Mi ricordo che la mancanza di sole diventava forte soprattutto dopo i primi giorni. Poi ti salvava il fatto di avere amici, di non sentirsi da soli. Io venivo da Anela, non posso dire che mi dava fastidio il freddo, mi dava fastidio il buio, la luce delle lampade. Ma nelle miniere del Limburgo si stava meglio. Noi minatori eravamo molto più rispettati di quanto non lo fossero a Charleroi. Lì le condizioni erano fra le più brutte di tutto il Belgio ".  Le facce nere dei minatori che risalivano dal fondo, la gabbia dell’ascensore dove erano stipati uno addosso all’altro, la velocità con cui questo scendeva a centinaia di metri di profondità, il buio e i cunicoli, il rumore dei martelli pneumatici e dei nastri trasportatori e infine la polvere di carbone che sembrava togliere il respiro. Nessuno aveva detto loro cosa fosse il lavoro che dovevano svolgere e quali le condizioni, l’ambiente. Questo, nonostante il fatto che l’informazione sulle condi­ zioni di lavoro fosse prevista dall’art. 5, dell’accordo italobelga. Ci vollero non poche lotte e l’impegno di molte organizzazioni italiane, a cominciare dalle Acli, per concordare con le autorità che, almeno per i primi giorni fossero impiegati esclusivamente per far conoscere agli emigrati la miniera. In seguito è stato introdotto l’uso di fare un piccolo corso pratico di due, tre giorni, finito il quale si cominciava ad andare in galleria con l’iniziale qualifica di manovale e per la durata di almeno sei mesi. Dopo quei primi sei mesi si passava a lavori più impegnativi.

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