La Sardegna invecchia a vista d'occhio: nel 2030 l'età media sarà di 60 anni

di Massimiliano Perlato

Le proiezioni demografiche della Sardegna elaborate dall’European Spatial Planning Observation Network, secondo cui nel 2013 l’età media della popolazione sarda sarà intorno ai 55 anni, per raggiungere la media di 60 anni nel 2030, collocandosi all’ultimo posto in Italia e in Europa. Proiezioni che dicono che la Sardegna di domani sarà più vecchia e più spopolata. Sotto questo profilo, non si rilevano elementi di discontinuità, visto che la popolazione complessiva della Sardegna in oltre 50 anni è cresciuta di neanche 400mila abitanti. Nel 1951 era di circa 1.270mila abitanti; nel 1971 di circa 1.470mila per arrivare al 1981 a 1.590mila abitanti. Numero questo che ha avuto un leggero incremento nell’ultimo censimento, grazie soprattutto alla presenza delle nuove popolazioni di immigrati. Ciò significa che l’entrata dell’isola nel circuito dei benefici della modernizzazione non ha invertito la storica bassa densità demografica, anzi si è aggravata per la forte concentrazione di popolazione in poche aree urbano-costiere. Questi mutamenti sono connessi al fatto che la Sardegna in neppure 60 anni ha vissuto tre fasi: la prima rappresentata dalla produzione industriale di base che ha sancito l’uscita dalla pre-modernità e l’entrata marginale della Sardegna nella modernità. La seconda rappresentata dalla produzione culturale del turismo balneare che è stata vissuta come piena modernità, oltre che come modalità, per accettare il fallimento dell’industria. La terza definibile dell’iper-modernismo e dell’iper-turismo rappresentata dalla produzione di consumo, qui inteso come complessa azione sociale e come flusso che ha esteso il processo di trasformazione sociale, anche là dove non c’era un’esplicita vocazione turistica. La prima fase è servita per innescare profondi mutamenti in termini sociali e ambientali, di cui lo spopolamento di vaste aree è uno degli effetti più importanti. Spopolamento che non ha subito inversioni di rotta neppure con l’insediamento industriale nella Sardegna centrale che non è stato fattore di attrazione in termini di popolazione, di rinnovo tecnologico; tutt’al più ha favorito delimitati insediamenti, ma senza creare l’effetto città. La seconda fase ha visto il turismo come modello sociale prevalente. In questa fase si sono consumati in poco tempo attività produttive industriali, pezzi di mondo rurale e luoghi. Il successo di alcuni territori costieri rappresenterà un modello di riferimento anche per tutti quegli insediamenti posti a ridosso delle coste e dell’entroterra. Ciò nella speranza che la conversione del singolo territorio in luogo di attrazione di flussi finanziari e di risorse umane, avrebbe costituito una chance di sviluppo economico e avrebbe garantito un’inversione dei processi di spopolamento. Così non è stato e il consumo è l’esito finale della fase attuale. Consumo da intendersi come un’articolata pratica sociale che, partendo dalle città e dalle coste, ha indotto un insieme di cambiamenti che hanno coinvolto, direttamente e indirettamente, i diversi tipi di insediamento storicamente presenti nell’isola e le loro comunità. Questi processi di mutamento hanno caratterizzato l’isola, ma sono analoghi a quelli che riscontriamo nel resto d’Europa e che sono indicati come emergenze di cui è urgente occuparsi: spopolamento delle aree rurali, invecchiamento della popolazione, urbanizzazione che nell’area mediterranea avviene lungo le coste, crisi ambientale. Semmai una differenza consiste nel fatto che in Sardegna tutto è avvenuto rapidamente e senza le dovute sedimentazioni culturali, il che ha significato che molti dei caratteri delle diverse fasi sono diventati obsoleti senza però avere avuto il tempo di innescare circuiti virtuosi. E’ come se la Sardegna avesse deciso di saccheggiare se stessa. In questo quadro, l’uso del termine "identità" associato a "specificità", deve essere cauto e potrebbe persino risultare dannoso se riferito ad un ipotetico passato più o meno mitizzato.

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