Elio Dessì a Milano, per i "suoi" samurai in mostra a Palazzo Reale



di Sergio Portas
 

Iliade Pusceddu (in Dessì) è seduta in prima fila qui a palazzo Reale, sala delle conferenze, col Duomo di marmo rosa che fa da cornice alla piazza antistante, un poco incerta nell’incedere, con i suoi 87 anni che le attribuiscono quell’aria di austera fragilità come fosse nobiltà acquisita, in forza di un tempo che scolpisce i visi e rimpicciolisce le persone. Ma, mi dice mamma mia che è anche lei del’22 e altrettanto guspinese di nascita, già allora la chiamavano Iliedda, Iliedda Pusceddu,per distinguerla da un’altra Iliade più in carne di lei che poi si è fatta suora…e via coi ricordi di una vita che fu. Coi nomi che si rincorrono i più strani, tantissimi: solo la famiglia Pusceddu contava 14 figli. E Iliade pure ne avrebbe avuti sette. Oggi è qui per Elio, uno dei due maschi, che è ospite principale di un evento collaterale alla mostra “Samurai”che dal 25 febbraio al 2 giugno ha visto 40.000 milanesi imbambolarsi di fronte alle splendide armature dei famosi guerrieri giapponesi. Lui Elio Dessì dei samurai si era innamorato da bambino fin da gli anni cinquanta, da quando babbo Antonio, che portava a casa da mangiare per tutti lavorando alla miniera di Montevecchio, gli aveva prospettato un futuro che prevedeva solo due alternative: la scuola o la miniera. Ed Elio con l’istituzione scuola ha avuto da subito idiosincrasia congenita, almeno con quella sarda, che poi ne ha frequentate di prestigiose in continente e nel mondo. In quegli anni del primo dopoguerra Guspini era un paese di strade senza asfalto, zeppo di bimbi che scorrazzavano scalzi per i vicoli, correndo dietro a vecchi copertoni di bicicletta che bisognava colpire forte con una bacchetta di legno perché rimanessero in equilibrio, aggregati in bande che si facevano la guerra l’un l’altra. Occorreva saper tirare di fionda e, quando si riusciva a trovare un ombrello vecchio che offriva le frecce, gli archi in mano di quei bimbi potevano diventare molto più pericolosi di una qualsiasi katana (leggi spada) di samurai. Deve essere lì che Elio Dessì, che di struttura fisica era magrolino e “pitticcheddu”, ha cominciato a sognare una tecnica di combattimento a mani nude che potesse dare una “chance” anche a chi non misurasse due metri per cento chilogrammi di peso. Fatto sta che , partendo da una scassatissima palestra messa su nel Montegranatico, il nostro guspinese è passato per prestigiose scuole di judo nazionali, è diventato campione d’arti marziali, ha vinto campionati europei e medaglie olimpiche, ha girato il mondo con le squadre nazionali, è stato in Giappone per anni e anche lì ha stupito i suoi maestri per la facilità con cui si è appropriato delle tecniche più caratteristiche della cultura marziale nipponica: l’arte della spada e del tiro con l’arco a cavallo. Dice giustamente la Lycia Bacchi Castiglia che deve oggi presentare il libro( Un minatore alla corte dei samurai, ed.Nemapress) che Elio ha scritto e molto altro raccontando: la biografia è talmente preponderante che lascia il contenuto in penombra. Per essere del tutto sinceri non è che il libro si faccia apprezzare granché per quella che i critici definiscono “la scrittura”, ma la storia che si dipana quella sì è avvincente e talmente ricca da rasentare l’incredulità. Il solito guspinese invidioso, dirà lui! Ma sentite almeno un riassunto di brevissimo periodo: negli anni ’60 è a Milano a litigare con un capomastro che osa apostrofarlo da “sardegnolo”, poi se va a Roma a Cinecittà ma il mondo dorato del cinema non lo attira per nulla, entra invece all’accademia nazionale italiana di judo, di cui diventa dopo istruttore (era già in grado di fare trecento flessioni sulle braccia), ad Amburgo per i campionati europei di Kendo infiamma i cuori dei nostri corregionali (“Bravu, scudi…scudi senza de piedadi…arroppa, arroppa fetti!”) e ha il tempo per un’avventura notturna in cui alcune “professioniste” tedesche si illudono di poter impunemente rubare il portafogli agli amici dei sardi. In California riesce a diventare amico di un capotribù apache dei  Chirikawa (dopo l’ennesima vittoriosa rissa con dei razzisti texani ), la cui figlia Raggio di Luna gli offre della tequila messicana da una fiasca. A Città del Messico continua ad azzuffarsi con tale Romero della Fuentes, se ne va con la Transiberiana fino a Vladivostok (e qui, davvero, ha tutta la mia invidia), litigando nel frattempo con dei francesi arroganti, e da qui, con una giunca! Passa il mar del Giappone e approda finalmente nella terra dei samurai. Dove diventa più giapponese dei giapponesi, direte voi. No, rimane sempre quel sardo di Guspini , con in tasca una “pattadese” che spunta fuori ogni due per tre. Perché Elio Dessì, a quanto ci fa sapere scrivendolo, è uno che i guai gli attira come la calamita la limatura di ferro. Sarà la statura che rimane sempre al di sotto dell’uno e sessanta e che fa credere spesso agli ignari gradassi avversari di trovarsi dinanzi a un “sardegnolo” di poco conto, fatto sta che Elio la sua bandiera di combattimento, i quattro mori della Brigata Sassari con cui il nonno aveva combattuto sul Carso, ha sempre dovuto difenderla con la grinta che usava per “s’istrumpa” nei vicoli di paese. Ha provato anche la miniera Elio, non c’è bisogno che qualche professorino gli spieghi il concetto di “lotta di classe” che sembra così stemperarsi in questi nostri tempi berlusconiani. Quando, qui a Milano, vengono lette alcune pagine che si riferiscono a quel periodo della sua vita, al vecchio combattente (mi permetto di chiamarlo vecchio solo perché ha due anni più di me, è del ‘44) spuntano lacrime che non vogliono farsi riassorbire. Eppure ne ha passate di traversie nel paese del sol levante, ha dovuto patire fame, freddo, massacranti allenamenti. Immerso totalmente in una cultura che fa dell’esercizio fisico estremo mezzo precipuo per una ricerca di equilibrio spirituale che rasenta l’ascesi, la rinuncia a qualsiasi gioia vitale. Quando la katana si muove quasi indipendente dalla mano che la impugna, in grazia di un vuoto mentale che le conferisce un’anima autonoma, quando dopo quattro ore di tiri l’arco che scocca l’ennesima freccia diventa pesante come fosse di piombo e il bersaglio sembra muoversi in una nebbia di sudore, eppure non si desiste dal colpirlo, vuol dire che si sta percorrendo la strada del guerriero: il bushido. E poi c’è da domare cavalli che sgroppano, imparare la tecnica dell’arco asimmetrico, guidando il destriero con la forza delle gambe, badando a cavalcare in gruppo di quattro senza infastidire i compagni che anche tendono gli archi. C’è molto di questo nel libro e soprattutto l’orgoglio di una sardità costantemente rivendicata. Fino ad appropriarsi del termine di “shardana”, i mitici guerrieri che guidarono “i popoli del mare” in imprese piratesche che misero in ambasce imperi e regni potenti quali quelli dei faraoni egizi. E Shardana erano i componenti la guardia reale di Ramesse il grande che di loro si servì per contrastare gli Ittiti a Kartes, rendendoli eterni con le iscrizioni del tempio di Luxor, coi loro elmi con le corna,uguali identici a quelli dei bronzetti sardi. Samurai di tremila anni fa, dice Elio, uno di loro poteva combattere contro dieci nemici. Una cosa chiederò a Elio quando lo rivedrò a Guspini, perché mai nel libro pubblicato il suo cognome appaia scritto senza accento:Dessi. Non può trattarsi di un errore, e se fosse che freudianamente Elio vuole darsi un accento di “modernità italiana”? Mi pare già di sentirlo se non smentisco questa ipotesi:”accabbàdda chinnò ti unfru is ogusu”! (pag.15).

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

3 commenti

  1. questo signore "Elio Dessi" ha il vizio di non pagare le persone che contatta per i suoi spettacoli,e sinceramente non so come faccia ad apparire sempre,e dappertutto senza problemi,come se avesse la coscienza a posto,è un emerito imbroglione,e sarebbe ora che la sua fama di GRANDE personaggio CADA,e al suo posto campeggiasse l’appellativo che meglio gli calza ,quello di FARABUTTO!!!

  2. Elio e’ un grande artista e chi ha avuto l’onore di partecipare ai suoi spettacoli ha imparato qualcosa da lui!Quindi chi lavora con il signor Elio dovrebbe pagare a lui!

  3. Sono d’accordo con te Elisa,ho avuto l’onore di lavorare con il maestro d’armi ed ho solo imparato e migliorato la mia tecnica e la mia cultura,alla ho pagato volentieri il maestro,ma non ha accettato i soldi.

Rispondi a Michele Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *