Desaparecidos: raccontare la tragedia in Argentina e i troppi silenzi complici dei dittatori

di Matteo Bordiga

 

«Signora, ma perché continuate a preoccuparvi per vostra figlia? Fate finta che sia andata in vacanza. Una lunga vacanza…» I generali argentini rispondevano spesso così, magari accompagnando le parole con un sorriso gentile e beffardo, alle madri che, disperate, chiedevano che fine avessero fatto i propri figli, scomparsi da giorni, da mesi. Da anni. In Argentina oltre 30mila uomini e donne, durante la dittatura militare (1976-1983), furono arrestati e fatti letteralmente sparire nel nulla. Volatilizzati. Desaparecidos. Si trattava per lo più di giovani e giovanissimi animati dalla volontà di ribellarsi al regime instaurato dopo la caduta di Peron: studenti che si riunivano per contestare i provvedimenti sempre più restrittivi messi in atto dalla giunta militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla. Molte delle vittime erano figli di europei emigrati in Argentina alla ricerca di lavoro e fortuna. Proprio come Franca Jarach, figlia degli italiani Giorgio e Vera, che fu rapita a diciott’anni il 26 giugno del 1976 e il cui destino, come quello di molti altri ragazzi, fu atroce. Dopo appena un mese di detenzione, Franca venne infatti caricata su un aereo e buttata nell’oceano. Ma sua madre, Vera Vigevani Jarach, è riuscita a non morire di dolore. E a trovare una nuova, ottima ragione per continuare a vivere e non farsi sopraffare dall’incubo del ricordo. «Oggi mi definisco una "militante della memoria"», ha detto a Cagliari nell’incontro di presentazione del libro "Il silenzio infranto. Il dramma dei desaparecidos italiani in Argentina" (Silvio Zamorani editore), curato assieme a Carla Tallone. Durante il dibattito, presso la libreria Dattena Mondadori, Vigevani Jarach ha sottolineato di aver realizzato questo saggio, «una ricostruzione storica dell’eccidio politico che mette in risalto le responsabilità del governo argentino e la connivenza di quello italiano, proprio per tenere desta la memoria. Perché Primo Levi insegna che il passato può ritornare e c’è bisogno che oggi la gente venga informata su quanto accadde in Argentina a cavallo fra gli anni settanta e ottanta». Vigevani Jarach, oltre che scrittrice ed ex giornalista, è anche una delle Madri di Plaza de Mayo, un’associazione spontanea di donne che, esattamente trent’anni fa, si riunirono a Buenos Aires per chiedere "la restituzione in vita" dei figli fatti sparire dalla dittatura. Per questo impegno, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, le ha conferito l’onorificenza dell’Ordine al merito della Repubblica. Un breve incontro e un abbraccio a margine delle celebrazioni per Antonio Gramsci a Oristano: Vera Vigevani Jarach è in Sardegna proprio per partecipare alla settimana gramsciana, su invito del Centro di documentazione per la difesa dei diritti umani di Tresnuraghes. Il giornalista Vito Biolchini, nel presentare il libro, è tornato sui legami fra la sanguinaria dittatura argentina e il «coevo governo italiano a sovranità limitata, accomunati dall’influenza totalizzante che entrambi subivano dagli USA. Negli anni settanta, sia in Italia che in Argentina Washington tentava di imporre un modello iper-liberista, che difendesse a spada tratta i valori e gli schemi culturali della civiltà occidentale in contrapposizione a quelle che venivano definite "derive marxiste". Proprio in questo clima di feroce repressione di ogni espressione anche solo vagamente "comunista", i giovani argentini furono vittima di uno sterminio dalle proporzioni terrificanti». Ma che c’entra l’Italia con i desaparecidos? «La loggia P2 era legata a doppio filo al regime argentino», prosegue Biolchini, spiegando che «per questo motivo in Italia veniva sistematicamente fatta calare una cappa di silenzio sulle atrocità che si registravano a Buenos Aires». A tal proposito Luigi Cogodi, deputato del Prc, ha ricordato che «la Rai, nell’era-Videla, evitava accuratamente di mandare in onda i servizi di Italo Moretti, inviato in Argentina, sulle barbare uccisioni perpetrate dai militari. Sia in Italia che a Buenos Aires vigeva una vera e propria congiura del silenzio. Così, mentre nel 1978, in occasione della vittoria dell’Argentina ai campionati mondiali di calcio disputati in casa, Videla esibiva una nazione apparentemente tranquilla e pacifica, la realtà quotidiana di Buenos Aires e dintorni parlava di rapimenti, retate ed esecuzioni invisibili. Ma come venivano prelevati i ragazzi considerati "pericolosi"? «Videla li faceva arrestare con motivazioni ridicolmente pretestuose, come ad esempio l’eccessiva vivacità intellettuale o un impegno sociale non compatibile con le linee guida che la dittatura intendeva imporre», ha ricordato Cogodi, «e intimava ai familiari di non denunciare la scomparsa dei figli o dei parenti. Pena l’uccisione immediata degli arrestati. Così la famiglie, ricattate, non fiatavano e spesso si guardavano bene dallo sporgere denuncia. Questa sorte toccò anche ai genitori di due ragazzi sardi: Martino Mastinu e Mario Bonarino Marras, di Tresnuraghes, trasferitisi con le famiglie in Sud America alla ricerca di qualche opportunità di lavoro e, purtroppo, massacrati assieme agli altri 30mila desaparecidos». E l’ambasciata italiana a Buenos Aires? Anch’essa rimaneva inerme di fronte a una simile tragedia? «Come racconto diffusamente nel libro, ostentava una complicità e un’acquiescenza al regime pressoché totali», ricorda Vigevani Jarach, specificando che «secondo l’ambasciatore italiano la situazione politica non era così drammatica come noi, parenti delle vittime, la dipingevamo». Perfino la Chiesa manteneva un atteggiamento ostruzionistico e rifiutava di riconoscere la gravità della situazione: «Il Nunzio apostolico del Vaticano, Pio Laghi, fece poco o nulla per aiutarci». Del resto, non è un mistero che lo stesso Laghi fosse amico intimo di alcuni generali della dittatura, fra cui ad esempio l’ammiraglio Emilio Massera, ex capo della Marina militare argentina. Ma, per fortuna, a distanza di tanti anni la voce delle Madri di Plaza de Mayo continua a risuonare nelle coscienze e nella memoria di testimoni e sopravvissuti. Grazie anche alle pressioni delle donne, qualche generale dell’Argentina insanguinata è stato sottoposto a processo: è di appena un mese a mezzo fa la notizia che i giudici della seconda Corte d’assise del Tribunale di Roma hanno condannato all’ergastolo Jorge Eduardo Acosta, Alfredo Ignacio Astiz, Hector Antonio Febres, Jorge Raul Vildoza e Antonio Vanek, ritenuti responsabili della morte di tre italo-argentini tra il 1976 e il 1983.

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