Disagio femminile in Sardegna: presupposti socio-economici sfavorevoli alla maternità

di Oriana Putzolu

 

La situazione socio-economica della Sardegna è sostanzialmente sfavorevole alla maternità e alla paternità. La nostra regione ha il più basso tasso di natalità nazionale (1,03). Non perché le donne sarde non vogliono mettere al mondo bambini – detengono il primato nazionale statistico dei figli che si vorrebbero avere (2,1) – ma per una serie di fattori, i più importanti dei quali si chiamano incertezza del futuro, disoccupazione e precarietà del lavoro, disinteresse istituzionale verso i problemi della famiglia. Disagio sociale e condizione femminile spesso coincidono a causa delle specifiche difficoltà che le donne sarde incontrano nell’accesso alle risorse materiali e immateriali che determinano la qualità della vita degli individui e della famiglie. Innanzitutto l’esclusione dal lavoro, in particolare da lavori stabili e garantiti, principale meccanismo attraverso cui per molte di esse si consolida nell’arco della vita una condizione di svantaggio. L’alta quota di donne in Sardegna estromessa dal mondo del lavoro e dalle opportunità, che il farne parte garantisce, forma un bacino notevole di soggetti a rischio disagio e un problema sociale di portata generale.  Non ultimo per la crisi del cosiddetto welfare state, che sempre meno appare in grado di venire incontro alle difficoltà che molte donne devono affrontare in particolari momenti della loro vita: maternità, malattia o anche condizione di solitudine nella vecchiaia. Dai dati disaggregati sul mercato del lavoro regionale, relativi all’ultima rilevazione del III trimestre 2008, si attesta che su una popolazione di 1.661.000, di cui 845.000 donne (più del 50%):

– le forze lavoro (quelli attivi nel mercato del lavoro) sono 694.000, le donne sono solo 278.000.

– le non-forze lavoro sono 967.000 di cui 567.000 le donne.

A parte 101.000 sotto i 15 anni e 172.000 oltre i 64, nella fascia più propriamente lavorativa (15-64) vi sono ben 295.000 donne, di cui 27.000 cercano lavoro non attivamente, 8.000 cercano lavoro ma non sono disponibili a lavorare se non a certe condizioni, 33.000 non cercano ma sono disponibili a lavorare, mentre 227.000 non cercano e non sono disponibili a lavorare.

– Il tasso di attività ( 15-64 anni) per le donne è del 48,5% contro il 70,8% per gli uomini.

– Il tasso di occupazione ( 15-64 anni) è del 42,1% per le donne contro il 64,2% degli uomini.

– Il tasso di disoccupazione è del 13,2% per le donne contro il 9,2% degli uomini.

Gli indicatori evidenziano chiaramente che tra le non forze lavoro (15-64) è maggiore la presenza femminile e vi sono ben 68.000 donne disponibili ad entrare nel mercato del lavoro. Se vi riuscissero potrebbero abbattere il divario con la corrispondente percentuale maschile. Le 68.000 donne disponibili al lavoro potrebbero far crescere il tasso di attività, ma sarebbe importante capire perché le altre 227.000 donne, o parte di esse, facenti capo alla non forza lavoro, non sono disponibili a lavorare. Quali difficoltà, problemi o vincoli portano queste donne a rinunciare? Le trasformazioni del lavoro stanno mettendo a dura prova la famiglia. Prima di tutto la crescente precarietà rende arduo per i giovani sposarsi. La stessa incertezza occupativa spesso mette in crisi i nuclei familiari costituiti. Di contro, senza una soddisfacente vita familiare il lavoro rischia di diventare una forma di alienazione. In Sardegna, dove 400 mila persone vivono in condizioni di povertà e dove mancano adeguati meccanismi di sostegno non solo economico ma anche sociale, le donne sarde pagano il prezzo più alto. Per tradizione si è soliti assegnare all’altra metà del cielo la responsabilità della gestione della casa, della cura dei figli e dell’assistenza agli anziani. Questioni familiari tali da determinare, molto volte, la scelta femminile di abbandonare, temporaneamente o in modo definitivo, il lavoro o rinunciarvi a causa delle ridotte possibilità di conciliare casa e professione. Il salvagente non arriva di certo dalla rete dei servizi sociali, carente soprattutto per la prima infanzia, al di sotto delle necessità delle donne che lavorano. Solo il 14,9% dei Comuni sardi ha attivato servizi per l’infanzia e solo il 10% dei bambini da 0-3 anni ne ha usufruito. Una rete, per altro, costosa: il prezzo dei nidi pubblici privati è in media di 273 euro. Insomma le famiglie sarde arrancano, e non solo per la crisi finanziaria mondiale e gli aumenti dei generi alimentari. Mancano servizi sociali adeguati ai nuovi bisogni. Anche il welfare sardo è in crisi da diverso tempo, perché non in grado di rispondere alle reali esigenze delle persone. Assistenza ai non autosufficienti e carenti servizi per la prima infanzia sono lacune che incidono pesantemente sulla vita familiare e sul reddito. A farne le spese sono sempre più spesso le donne che, secondo l’Istat, in un caso su 5 abbandonano il lavoro dopo aver avuto un figlio e nella ricerca di un lavoro una su 3 rinuncia a trovarsi un’occupazione per l’impossibilità di conciliarla con i carichi di lavoro familiare, anziani da accudire e figli. Naturalmente a complicare questa situazione si aggiunge il dato sull’aumento delle povertà e dell’emarginazione sociale. Anche in Sardegna sono le donne a colmare le carenze del welfare sardo con un sistema assistenziale principalmente basato sul "welfare fai da te", costituito da reti di aiuto informali, in cui le famiglie si sono date da fare per far fronte ai loro bisogni. Ormai questa rete non ce la fa più, perché costruita sul protagonismo femminile. Ma le donne rispetto al passato hanno sempre meno tempo.  Disoccupazione, precariato, carenza di servizi sociali e assistenziali, diminuzione dei matrimoni e della natalità, povertà sono aspetti diversi anche di una complessiva crisi economica e del lavoro.

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