I decessi silenziosi dell'uranio impoverito

di Massimiliano Perlato

 

Decine di migliaia di tonnellate di materiale radioattivo sparso per anni su tutta la superficie del pianeta. Uranio nei proiettili, nelle mine e per blindare i carri armati. Uranio come contrappeso nella costruzione di aerei civili e militari, elicotteri, satelliti, navi e barche a vela. Uranio come schermante nelle stanze degli ospedali e nelle apparecchiature diagnostiche. Persino nelle leghe per le otturazioni dei denti e nelle mazze da golf. Nessun freno all’uso delle scorie radioattive, nessuna misura protettiva, nessun controllo. E soprattutto nessuna informazione da parte dei governi e delle strutture preposte, che hanno sorvolato con colpevole leggerezza sulle più elementari norme di tutela della salute dei loro cittadini. Un crimine contro l’umanità. Il nuovo rischio del nucleare deriva principalmente dai prodotti di scarto della lavorazione, le cosiddette "scorie nucleari", derivanti dal processo di arricchimento dell’ uranio per la creazione di combustibile per le centrali e le armi nucleari. Queste scorie sono presenti nella forma di esafluoruro di uranio (UF6) che viene convertito in uranio impoverito (UI) per essere poi utilizzato nei modi più disparati. L’UI è una sostanza radioattiva e tossica che viene chiamata "uranio impoverito" perché è principalmente costituita dall’isotopo U-238 e contiene una piccola percentuale dell’isotopo fissionabile U-235. Anche se la sua radioattività è il 40% in meno dell’uranio fissile, è sempre ben 60 volte più radioattivo del materiale che si trova in natura. Una proprietà caratteristica dell’UI di cui poco si parla è la piroforicità: si tratta della capacità dell’UI di autoincendiarsi a temperatura ambiente in determinate condizioni e di innescare incendi. E anche se non s’incendia perde in un anno lo 0.5 della sua massa. Le emissioni dell’UI sono date principalmente da particelle "alfa" che per certi versi sono più insidiose dei "gamma" dell’uranio 235 perché possono essere respirate e non vengono segnalate dai contatori Geyger. La quantità di UI stoccata attualmente nel mondo è superiore ai 6milioni di tonnellate. Ovvero poco più di un chilogrammo per ogni essere umano. Le cifre ufficiali parlano di 150mila tonnellate in Gran Bretagna, 250mila in Francia, 750mila negli USA e addirittura 5milioni di tonnellate in Russia. Si tratta delle famose scorie nucleari per le quali non si è mai trovata una soluzione di smaltimento. O almeno così si pensava: nella realtà invece si è scoperto che migliaia di tonnellate sono state riciclate in beni destinati a uso commerciale e in questa forma disperse nell’ambiente. I danni provocati dell’UI, o meglio dalle radiazioni da questo emesso, sono di tipo cancerogeno, mutagenico-genotossico. Inoltre, nel caso per esempio che venga bruciato durante un incendio, si formano i diossidi di uranio, i cui effetti sulla popolazione sono evidenti in Iraq, dove sono state bruciate 300 tonnellate di uranio (ammesse ufficialmente), leucemie, tumori, malformazioni genetiche, e non solo sulla popolazione locale. Durante la Guerra del Golfo del 1991, fra aerei e carri armati inglesi e americani, sono state sparate qualcosa come 340 tonnellate di UI, si tratta, tanto per usare un termine di paragone, di una quantità cento volte maggiore di quella rilasciata durante l’incidente di Cernobyl (dove la vita media è passata da 67 anni a 42). L’UI, venduto a 17 paesi del mondo e fornito gratuitamente ai produttori di armi, viene usato per costruire proiettili anticarro lunghi circa mezzo metro capaci, grazie all’altissimo peso specifico dell’uranio, di perforare pareti d’acciaio fino a 6 centimetri di spessore. Al momento dell’impatto l’UI brucia, creando particelle radioattive estremamente volatili in grado di "ricadere" in un’area praticamente illimitata. Ci sono militari italiani che muoiono nel silenzio. Sono vittime di malattie di guerra. "Sindrome del Golfo", "Sindrome dei Balcani". Le associazioni di tutela dei militari hanno inoltre una lunga lista di giovani soldati che, in tutta Italia e a loro spese, sono in cura per varie forme tumorali. Da quando lo scandalo dell’uranio impoverito è scoppiato, nell’inverno 2000-2001, sarebbero ormai una trentina le morti riconducibili all’esposizione delle polveri di quello che gli americani chiamano dal 1991 "metallo del disonore". E sarebbero ormai quasi 300 i militari con malattie "sospette". È per cercare d’arginare questa marea montante che la Difesa ha fatto partire un progetto che dovrebbe mettere la parola fine alla diatriba sul pericolosità dell’uranio impoverito. E che secondo le associazioni di tutela dei militari rischia invece di seppellire definitivamente la verità. Le morti dei militari colpiti da queste sindromi tumorali si assomigliano tutte, ma non sono state finora riconosciute ufficialmente. Questi mali portano alla morte, ma la morte non porta al riconoscimento della causa di servizio, a un risarcimento per l’impegno nelle missioni di pace che in questo decennio – dalla Somalia in poi – hanno coinvolto decine di migliaia di militari italiani. Oltre 40mila persone che ogni 4 mesi per almeno 3 anni – e almeno una volta l’anno nei due anni successivi – si sarebbero dovute sottoporre a controlli che ne avrebbero dovuto confermare il buon stato di salute nel tempo. Questi esami periodici non si stanno invece effettuando con la regolarità e nel numero stabilito. Secondo fonti mediche delle Forze armate gli ospedali militari – concentrati soprattutto nel nord – non sono in grado di svolgere tutti gli screening: manca il personale e manca la possibilità di tenere sotto controllo una così vasta popolazione presa in esame. La percentuale di test svolti si attesterebbe attorno al 50%. Dopo tre anni di procedure non rispettate, con esami non compiuti o compiuti in ritardo, senza tener conto delle tabelle, adesso i vertici militari avrebbero deciso di trasferire quel che resta del programma di controlli dagli ospedali militari a quelli civili. Così facendo i costi degli esami (che variano da pochi euro a qualche decina), si moltiplicheranno – per un totale di diverse decine di milioni l’anno – così come si innalzeranno i tempi di attesa per i risultati, visto che le strutture pubbliche difficilmente riusciranno a rispettare i tempi prescritti. In tal modo, dicono alcuni esperti, l’efficacia dell’intera procedura verrà vanificato. L’unica soluzione, si sottolinea, sarebbe quella di "riunire tutti i malati in un unico ospedale e sottoporli a esami continui e approfonditi". Ed è forse per ovviare all’impossibilità d’ottemperare alle raccomandazioni della commissione istituita nel 2001 che il governo ha lanciato un nuovo progetto: Signum. Acronimo di "studio di impatto genotossico nelle unità militari" per lo studio d’accertamento dei livelli di uranio e di altri elementi potenzialmente tossici. Dovrebbe durare 10 anni, non sarebbe focalizzato solo sull’uranio ma anche sugli altri agenti ambientali potenzialmente nocivi, e permetterebbe di porre una "pietra miliare per tutto il consesso scientifico internazionale". Per le associazioni di tutela dei militari Signum porrebbe invece una "pietra tombale" sulle possibilità d’accertare la verità sull’uranio e sulle altre possibili cause delle malattie che stanno uccidendo tanti militari. I presupposti della ricerca vengono considerati sballati, al punto da rendere inefficace, se non falsato, ogni risultato. Non è po
ssibile considerare scientificamente rilevante – fanno osservare gli esponenti delle associazioni – un gruppo di militari dotato d’ogni protezione, mentre si fa rilevare che in passato (e la pratica durerebbe ancora in Iraq) il personale militare non ha praticamente mai seguito le misure di sicurezza stabilite dalla Difesa a partire dal 22 novembre del ’99 (gli americani le hanno adottate dal 14 ottobre del ’93). La sanità militare – che ha sempre ribadito che non vi è alcun nesso tra esposizione all’uranio e le patologie della "Sindrome del Golfo/Balcani" – è certa che grazie a Signum potrà confermare definitivamente le sue convinzioni. Ma allora, si chiedono diversi parlamentari e anche dei militari, perché lo studio viene condotto solo su soggetti dotati dell’equipaggiamento Nbc? E perché, nella scheda d’indagine che i volontari compileranno vi è un punto su "interruzioni spontanee di gravidanza, patologie dei nati", che sembra confermare i consigli che da tempo vengono rivolti a chi parte per certi teatri di guerra: astenersi dal procreare nei successivi 3 anni dal rientro dalla missione? Perché in tempi di ristrettezze economiche, alla vigilia della riforma radicale d’un esercito di soli professionisti, che dovrebbe esser capace di offrire prospettive attraenti, viene deciso d’investire una cifra ragguardevole (se la si moltiplica per i 10 anni di durata del progetto) invece di destinare, come è stato chiesto da alcuni parlamentari, a istituire un fondo che garantisca le cause di servizio a tutti quei militari che s’ammalano nello "svolgimento del loro dovere"? È quello che chiedono alcuni dei militari che soffrono di patologie tutte simili, quasi sempre tumorali, e che nelle loro case o nei letti di ospedali, accuditi da familiari o da commilitoni, impegnati in cure lunghe e costosissime, pronti a divenire cavie della ricerca scientifica, sperano gli venga riconosciuto di star morendo per un male che li ha colpiti durante il servizio, mentre pattugliavano un area contaminata, mentre pulivano armi o mezzi con solventi chimici, mentre conducevano test con armi in poligoni militari (in Sardegna, ma non solo), dove negli ultimi decenni sarebbero stati provati ordigni anche per conto degli altri paesi Nato (dunque anche americani). Alcuni dei malati si chiedono perché altri, nello loro stesse condizioni non parlano; ma si rispondono ricordando il riserbo e la ritrosia, dovuti allo spirito di corpo, al legame con le istituzioni, forte come – se non più – della paura, che porta a tacere e a tenere presente che anche se si fa parte della "forza assente", ovvero si è stati messi in malattia ma non congedati, si sottostà comunque alle regole dell’ordinamento militare

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Un commento

  1. Società dei Concerti di Cagliari

    Gent.mi Signori il Trio d’archi di Cagliari, formazione da camera nell’ambito della musica classica e moderna,

    operante nel panorama nazionale ed internazionale, nell’ambito dell’attività della Società dei Concerti di Cagliari, sarebbe lieta di collaborare con Voi per la realizzazione di eventi musicali e culturali.

    Con preghiera di diffusione a tutti i circoli di emigrati sardi. In attesa di un positivo riscontro per una fattiva collaborazione, si porgono i più cordiali saluti

    Management Trio d’archi di Cagliari

    http://www.triodarchidicagliari.it

    management@concertidicagliari.it

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